NOVITA' IN TEMA DI MEDICINA INTERNA

Dott. Giulio Marcon
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NEWS- Medicina Interna
per medici 19/01/00
( notizie dalla letteratura relativa a problemi eminentemente clinici)

Con la colonscopia d'urgenza si può guarire le emorragie da diverticoli

L'endoscopia digestiva del tratto superiore ha un ruolo definito nell'identificare la sede di eventuali emorragie e nel valutare il rischio di recidive. Anche la colonscopia può essere una procedure d'urgenza che permette di identificare e trattare in modo non chirurgico i sanguinamenti da diverticolo del grosso intestino. Lo hanno dimostrato i ricercatori dell'UCLA e del VA Center di Los Angeles, che hanno confrontato gli outcomes di pazienti con sanguinamento acuto del grosso intestino da diverticoli trattati nel modo tradizionale ( diagnosi mediante colonscopia e colectomia in caso di mancata cessazione del sanguinamento ) e mediante un trattamento endoscopico consistente in iniezioni di epinefrina e/o coagulazione con sonda bipolare nella sede del sanguinamento.
Nel primo gruppo di 73 pazienti (anni 1986-1992) 17 avevano un sanguinamento da diverticoli; di questi 17, sei erano stati sottoposti ad emicolectomia per recidiva emorragica.
Nel secondo gruppo di 48 pazienti, 10 avevano una chiara emorragia da diverticoli; grazie al trattamento endoscopico in nessun paziente di questo gruppo è stata necessaria la colectomia.
L'interruzione endoscopica del sanguinamento del grosso intestino appare dunque una modalità di trattamento dell'emorragia da diverticoli che, in mano ad operatori esperti, è in grado di ridurre la percentuale di colectomie.

New England Journal Of Medicine, 2000;342:78-82


NEWS-Gestione clinica
per medici 19/01/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di politica clinica)

Il difficile passaggio delle raccomandazioni della ricerca nella pratica
Un gruppo di ricercatori appartenenti a centri universitari statunitensi (Pennsylvania, Texas) ad organizzazioni governative (National Committee for Quality Assurance,NCQA) ed a Health Maintenance Organizations cercano di chiarire il motivo per cui il NCQA ha stabilito come risultato da raggiungere il livello di 130 mg/dL di LDL-C per realizzare la prevenzione secondaria nei pazienti con cardiopatia ischemica postinfartuale arruolati nelle organizzazioni sanitarie private chiamate HMO (Health Maintenance Organizations). Il contrasto con la comune raccomandazione, derivata dai trials clinici, di mantenere il LDL-C sotto i 100 mg/dL, deriva da una serie di considerazioni pratiche : la prima è data dal fatto che nella realtà al di fuori dei trials solo il 25/35% dei pazienti con cardiopatia coronarica sono sottoposti alla valutazione annuale del LDL-C almeno una volta l'anno, e la seconda che almeno il 70% dei pazienti con cardiopatia coronarica hanno il LDL-C superiore a 130 mg/dL. La differenza sta nel fatto che il target di un singolo singolo paziente è un concatto diverso da quello del target di una popolazione, che dipende non tanto dai comportamenti dei singoli individui quanto dalle politiche esplicite di mettere in pratica le raccomandazioni e le linee-guida che sono assai importanti nella salute a livello di popolazione.

JAMA 2000, 283;1:94-98


NEWS- Medici e Management
per medici 19/01/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di management)

Tagliare i letti......aumenta i costi
Ci si chiede spesso come mai, nonostante i continui tagli all'assistenza, la spesa sanitaria tenda a salire. Una risposta viene da una ricerca eseguita in Canada, nella quale si è dimostrato come i tagli dei letti per acuti hanno avuto l'effetto di aumentare la spesa sanitaria. Non si è tenuto conto infatti dello squilibrio che si crea quando, con meno letti, i ricoverati sono tutti in condizioni mediamente più gravi. Questo allunga invece che ridurre i tempi di ricovero. La risposta alla domanda se "la riduzione dei budgets ospedalieri determina una riduzione dei costi " è un lampante "no!". Ed è una conseguenza che molti lavoratori sanitari avevano anticipato.
La lezione da imparare è che gli effetti di una misura disegnata a tavolino non sono controllabili nella realtà complessa degli ospedali

Medical Care 1999;37:JS123 - 134


NEWS- Medicina Interna
per medici 24/01/00
( notizie dalla letteratura relativa a problemi eminentemente clinici)

Vitamina E e prevenzione del danno cardiovascolare: correlazione messa in dubbio.
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a Hamilton giunge la notizia che la vitamina E, usata ad alte dosi (400UI al giorno) per una media di 4,5 anni in pazienti ad alto rischio, non ha alcun effetto nel prevenire i danni cardiovascolari. Questo riscontro, eseguito mediante un vasto studio randomizzato contro placebo che ha coinvolto oltre 8500 pazienti in vari paesi, non comprova dunque l'ipotizzato effetto protettivo della vitamina E sul sistema cardiovascolare. L'apparente discrepanza con gli studi precedenti deriva dal fatto che alcuni di questi studi erano di tipo osservazionale: in questo tipo di studi si dimostrava una relazione inversa tra assunzione di frutta e verdure ricche di vitamina E e patologia coronarica, ma non era possibile chiarire correttamente tra il ruolo della vitamina E e quello di altri fattori protettivi, come l'esercizio fisico od il tipo di dieta. Altri studi precedenti sull'effetto della vitamina E sul sistema cardiovascolare, anche di tipo randomizzato, erano di piccole dimensioni e fornivano risultati contraddittori a causa della scarsità degli eventi, della durata limitata del trattamento e dalla disparità delle dosi di vitamina E impiegate. Pur non potendo negare l'assunto teorico dell'effetto protettivo sul sistema cardiovascolare di un antiossidante come la vitamina E, non è ancora stato possibile dimostrarne l'utilità effettiva nella patologia umana. Come in altre situazioni sperimentali, è spesso difficile identificare in una dieta il componente realmente efficace per ottenere un certo risultato, che è spesso frutto non di una sola sostanza ma da una combinazione di sostanze.

New England Journal of Medicine 2000;342: 154-60


NEWS-Gestione clinica
per medici 24/01/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di politica clinica)

Dal consenso informato alla decisione partecipata: una strada ancora lunga
Un gruppo di ricercatori di Seattle ha studiato 1057 incontri videoregistrati tra medico e paziente, con lo scopo di evidenziare quale fosse la strategia decisionale impiegata e di valutare l'entità del coinvolgimento reale del paziente nelle decisioni che riguardano la sua salute. Lo studio è nato dalla necessità di verificare se la "informed decision making", raccomandata teoricamente da molti articoli, sia in realtà frequente nella pratica medica.
Le decisioni sono state suddivise in tre tipi: decisioni semplici ( decisioni relative ad esami di routine, counseling elementare), decisioni di media difficoltà ( decisioni relative a farmaci, decisioni relative ad uno specifico problema medico) e decisioni complesse (screening per neoplasia prostatica, counseling sulla chirurgia, decisioni sull'obesità). L'analisi ha dimostrato che il grado di reale coinvolgimento del paziente è in generale piuttosto basso (solo il 9% delle decisioni erano accompagnata da informazioni realmente complete) ed è addirittura minimo per le decisioni più complesse.
Il commento editoriale sottolinea come i limiti di tempo della visita siano un elemento che gioca contro la possibilità di fornire al paziente spiegazioni ampie. Altre difficoltà sono costituite dall'assenza negli ambulatori di materiale informativo adeguato, dai differenti atteggiamenti dei pazienti rispetto al coinvolgimento nelle decisioni e dalla difficoltà dei medici ad affrontare le tematiche comunicative, argomento tutt'altro che abituale nella formazione universitaria e postuniversitaria.
La soluzione al problema è probabilmente mista: accanto ad un progressivo maggior coinvolgimento del paziente durante la visita, sono necessari materiali educativi efficienti e ben progettati e corsi di formazione adeguati ad aiutare i medici a gestire efficacemente la rapida evoluzione del rapporto medico-paziente

Journal of American Medical Association 1999;282: 2313-20
Commento 2356-7


NEWS- Medici e Management
per medici 24/01/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di management)

Internet e salute: una nuova alleanza
Nel numero del 10 gennaio di Business Week la parte dedicata alle scienze della vita ospita un interessante articolo di Ellen Licking relativo ai problemi della sanità statunitense ed alle loro soluzioni: l'esaurimento dei risparmi possibili con la competizione guidata ha aperto infatti la strada ad una nuova spirale di aumento dei costi sanitari, tanto che per il 2000 si ipotizzano aumenti di spesa nell'ordine del 6/7%. La possibilità di controllare i costi pare sempre più lontana mentre diventa sempre più impellente il problema di finanziare i futuri aumenti di spesa. Una strada possibile per razionalizzare il sistema è quella di restituire ai medici parte del potere decisionale perduto negli anni della "competizione guidata", strada che è già stata in parte iniziata. Ma questo da solo non basta. Un'altra strada è quella di usare intensamente le possibilità offerte dalla "E-Health", ossia dall'uso massiccio della Rete, che è in grado di abbattere quel 18% di costi amministrativi che da sempre affligge la medicina d'oltreoceano.
Ma l'uso della rete non si ferma qui: oltre alla trasmissione elettronica delle ricette delle parcelle e dei dati c'è già chi sta lavorando a veri e propri programmi di "disease management" forniti in Rete.
L'uso della Rete nel campo sanitario, un campo ancora relativamente poco esplorato, può costituire una risposta valida al problema di migliorare l'efficienza dei sistemi sanitari

Busines Week 2000;January 10 : 73


NEWS- Medicina Interna
per medici 30/01/00
( notizie dalla letteratura relativa a problemi eminentemente clinici)

L'embolia polmonare è molto più frequente di quanto si pensi
Gli studi sulla prevalenza di Embolia Polmonare (EP) nei pazienti con Trombosi Venosa Profonda (TVP) sono generalmente di piccole dimensioni (poche decine di pazienti) ed eseguiti con tecniche e criteri diagnostici diversi, non risultando quindi facilmente confrontabili tra di loro. Due gruppi di ricercatori francesi presentano uno studio sulla prevalenza di EP nei pazienti con TVP di dimensioni maggiori dei precedenti. Lo studio è stato infatti eseguito su 622 pazienti ambulatoriali con TVP prossimale confermata con flebografia e senza segni clinici di EP, nei quali è stata ricercata la presenza di embolia polmonare usando i diversi criteri diagnostici impiegate negli studi precedenti. Il 32-45% dei pazienti arruolati (la percentuale varia a seconda a seconda del criterio diagnostico selezionato) ha dimostrato scintigrafie polmonari positive per EP. Nel tre mesi di follow-up non si sono dimostrate significative differenze nella ricorrenza di EP nei pazienti che presentavano EP all'inizio dello studio ed in quelli che invece non la presentavano.
Il commento editoriale sottolinea come l'EP sia molto più frequente di quanto si pensi nei pazienti con TVP, tanto che nelle serie autoptiche ben il 70% delle EP riscontrate non erano state sospettate clinicamente. La stessa TVP silente riscontrata nelle casistiche autoptiche è d'altra parte molto più frequente di quanto venga diagnosticata in vivo. E' dunque necessario porre attenzione alla diagnosi di possibile TVP e EP nei pazienti a rischio ed all'instaurazione precoce di una profilassi adeguata.

Archives of Internal Medicine 2000; 160: 159-64 . Comm.ed.:145-7


NEWS-Gestione clinica
per medici 30/01/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di politica clinica)

Nuovi ruoli del nursing nelle cure primarie
Il nuovo ruolo del nursing nel fornire assistenza ed cure è stato evidenziato in uno studio che ha coinvolto i centri di cure primarie delle università di New York, del Minnesota, e di Boston. Obiettivo dello studio era quello di confrontare la qualità delle cure fornite a pazienti trattati per problemi analoghi ( follow - up dopo un accesso al pronto soccorso od una visita urgente) da medici del territorio e da infermieri del territorio. L' autonomia decisionale dei due gruppi era comparabile.
I pazienti erano tutti ispanici senza copertura assicurativa. Le valutazioni sono state fatte sulla soddisfazione dei pazienti dopo il primo appuntamento, sulla percezione dello stato di salute (mediante SF-36) e sul grado di utilizzazione dei servizi nei periodo successivo all'intervento assistenziale.
Tra i soggetti trattati dai due gruppi non sono state trovate differenze sostanziali nello stato di salute dei pazienti con diabete od asma, nell'utilizzazione dei servizi dopo l'intervento e nella soddisfazione dopo il primo appuntamento. Solo nella misura della soddisfazione a sei mesi il punteggio dei medici risultava lievemente maggiore.
Lo studio dimostrerebbe che l'uso di personale paramedico potrebbe ridurre le spese senza ridurre la qualità. Questo naturalmente è valido nelle condizioni in cui lo studio è stato effettuato (pazienti immigranti e poveri, personale affiliato a centri universitari), e la sua trasportabilità in altri ambiti è tutta da verificare.
Il suo valore tuttavia è quello di sottolineare come si stiano rapidamente evolvendo i ruoli dei vari professionisti della sanità.

Journal of American Medical Association 2000; 283:59-68


NEWS- Medici e Management
per medici 30/01/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di management)

Le riduzioni dei posti letto non sono sempre indolori
Le grandi ristrutturazione dei servizi sanitari hanno l'obiettivo di mantenere la qualità del servizio riducendo le spese. Tuttavia spesso quello che funziona al tavolo del pianificatore esercita nella realtà effetti negativi imprevisti.
Nel corso della ristrutturazione degli ospedali del Manitoba, un gruppo di ricercatori dell'Università di Winnipeg ha studiato gli effetti della riduzione dei letti ospedalieri sulla qualità delle cure. Accanto ad un netto incremento delle procedure eseguite in ambulatorio ed in day-hospital, si è osservato un netto peggioramento delle cure per gli anziani ed i poveri. Gli appartenenti a queste fasce deboli sono stati curati con meno efficienza, tanto che la durata di degenza dei pazienti appartenenti a questi gruppi è aumentata ben del 43% ( indipendentemente da motivazioni sociali).
Le ristutturazioni dei sistemi di cura non sono dunque sempre un vantaggio per i destinatari delle cure, e specialmente per la fasce più deboli della popolazione: questo fatto dovrebbe ricevere una maggiore attenzione da parte dei decisori pubblici.

NEWS- Medicina Interna
per medici 10/02/00
( notizie dalla letteratura relativa a problemi eminentemente clinici)

Il metilnaltrexone è in grado di risolvere la stripsi da oppiacei

La stipsi da oppiacei è un disturbo comune nelle persone che richiedono un'analgesia a lungo termine con questi farmaci. Le normali misure usate per combattere la stipsi da oppiacei sono molto spesso inefficaci, tanto che talvolta questo effetto collaterale limita l'uso di questi potenti ed efficaci analgesici.
I ricercatori dell'Università di Chicago hanno dimostrato che il metilnaltrexone, agonista recettoriale degli oppiodi che non attraversa nell'uomo la barriera ematoencefalica, è in grado di eliminare la stipsi da oppiacei senza interferire con l'attività analgesica. La sperimentazione clinica, condotta mediante studio randomizzato in doppio cieco contro placebo in 22 soggetti volontari in mantenimento con metadone, ha dimostrato un ottimo effetto sul sintomo stipsi senza interferire con l'attività analgesica degli oppiacei. La controprova della efficacia dell'antagonista è stata ottenuta misurando il transito oro-cecale mediante prova del lattulosio, che, nei pazienti trattati con metilnaltrexone, è sensibilmente aumentato.
Lo studio, anche se di piccole dimensioni, appare molto promettente per risolvere un problema apparentemente banale, ma in realtà molto importante, delle molte persone che necessitano di analgesia a lungo termine

JAMA 2000; 283:367-72


NEWS-Gestione clinica
per medici 10/02/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di politica clinica)

I corsi sulla comunicazione sono utili al rapporto medico-paziente?
Il rapporto medico-paziente è fondamentale per la qualità delle cure e la soddisfazione del paziente stesso. Molte volte la qualità della comunicazione che si instaura tra medico e paziente è uno dei principali elementi per realizzare un buon rapporto terapeutico. Ma, si sa, l'abilità comunicativa non è sempre innata, e per questo motivo i corsi destinati a migliorare le capacità comunicative dei medici sono sempre più frequenti.
Ma questi corsi servono davvero? Forse no, se leggiamo i risultati di una sperimentazione riferiti da un gruppo di ricercatori di Portland, Oregon. La sperimentazione ha coinvolto 69 medici di famiglia ed i loro pazienti: i medici sono stati sottoposti ad un corso intensivo sulla comunicazione, costituito da due sessioni intensive di formazione di quattro ore ciascuna. I risultati sulle capacità comunicative, riferiscono i ricercatori sono stati considerati buoni dai medici ma non hanno determinato un aumento della soddisfazione dei loro pazienti. Dobbiamo concludere qunidi chei corsi sulla comunicazionenon servono? Probabilmente no.
Bisogna infatti considerare che due sedute di quattro ore, per quanto intensive, non possono modificare di molto i comportamenti comunicativi, che probabilmente il miglioramento della comunicazione richiede corsi più lunghi , e che la misurazione degli effetti deve essere anch'essa fatta in tempi lunghi.
Ann. Int. Med. 1999; 131:822-9
Commento editoriale : 859-60


NEWS- Medici e Management
per medici 10/02/00
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di management)

Le riammissioni non programmate non sono un buon indice della qualità delle cure
Uno dei sistemi più tradizionalmente usati per misurare la qualità delle cure ospedaliere è costituito dalla misurazione del tasso di riamissioni non programmate (per la stessa malattia) nei 30 giorni successivi alla dimissione. Questo indice è popolare perchè è facilmente rintracciabile dai dati amministrativi: questo pregio di natura burocratica si traduce tuttavia un un difetto grave del sistema. Il tasso di riammissioni non programmate non ha infatti rapporto con la qualità delle cure che i pazienti hanno ricevuto in ospedale. Lo ha dimostrato il gruppo di Boston del prof. Arnold Epstein, che, studiando il tasso di riammissione in relazione con la qualità reale delle cure ricevute (ossia lavorando non su dati amministrativi ma sulle cartelle cliniche reali) ha evidenziato come non si possa affermare che i pazienti che vengono riammessi sono quelli che hanno ricevuto le cure peggiori.
Una volta di più si mette in luce la scarsa credibilità dell'uso dei dati amministrativi per valutare le attività professionali.


NEWS- Medicina Interna
per medici ( notizie dalla letteratura relativa a problemi eminentemente clinici)
20/02/00
L'ecografia in gravidanza non causa leucemia
L'esame ecografico è ormai diventato una valutazione ostretrica di routine. Alcuni esperti tuttavia hanno segnalato la possibilità che un numero eccessivo di ecografie durante la gravidanza possa danneggiare l'embriogenesi e causare danni al feto, come mancinismo od anche neoplasie maligne. Pediatri e biostatistici dell'Università di Uppsala in Svezia hanno cercato di dare una risposta chiara all'interrogativo se l'ecografia durante la gravidanza possa favorire l'insorgenza di leucemia linfatica o mieloide nel neonato.
Esaminando la casistica di leucemia infantile dal 1973 al 1989, confrontandola con un numero adeguato di controlli ed incrociando i dati con l'uso di ecografia nelle rispettive gravidanze, i ricercatori hanno potutuo stabilire che non vi è alcun nesso tra l'uso dell'ecografia e la patologia ematologica maligna del bambino.

British Medical Journal 2000; 320:282-3

Perchè l'esercizio fisico fa bene alle coronarie?
L'esercizio fisico migliora la perfusione cardiaca, ma il meccanismo con cui questo effetto si verifica non è ancora chiaro, anche se si è dimostrato che con l'esercizio le alterazioni del tratto ST diminuiscono e la perfusione miocardica migliora.
I cardiologi dell'Università di Lipsia hanno eseguito un elegante esperimento che dimostra come l'esercizio fisico agisca mediante il miglioramento della funzione endoteliale: tra 19 pazienti reduci da una angioplastica coronarica sono stati selezionati due gruppi, uno trattato in modo convenzionale ed uno con l'associazione di 10 minuti di esercizio fisico per sei volte al giorno alla terapia tradizionale. Nel gruppo sottoposto ad esercizio si sono osservati notevoli miglioramenti della risposta del flusso coronarico all'acetilcolina e della riserva coronarica di flusso all'adenosina. Entrambi i fenomeni indicano come il miglioramento della funzione endoteliale sia uno degli elementi chiave dell'effetto benefico dell'esercizio sul cuore.
Nel commento editoriale si sottolinea, pur nei limiti della ricerca, l'importanza del riscontro dell'utilità dell'esercizio fisico non solo nella cardiopatia coronarica conclamata ma anche nella prevenzione del danno coronarico, facendo intravedere la strada verso nuove modalità di intervento preventivo e curativo.

New England Journal Of Medicine 2000; 342: 454-61
Commento editoriale 503-505


NEWS-Gestione clinica
per medici (notizie dalla letteratura relativa a problemi di politica clinica)
20/02/00
Come misurare l'effetto della patologia associata?
In sempre più persone sono presenti una o più patologie associate alla patologia principale; a parte la maggior complessità del trattamento, la presenza di patolgie associate rende estremamente difficili le valutazioni prognostiche e quindi le decisioni cliniche. Uno studio sostenuto dalla American Cancer Society Organization ha avuto come obiettivo quello di elaborare uno strumento per la valutazione del peso delle patologie associate alla neoplasia mammaria. Lo studio ha dimostrato che in effetti alcuni elementi come l'età, lo stadio della neoplasia e le patologie associate aumentano il rischio di mortalità ad un anno. I ricercatori sono stati anche in grado di presentare un sistema di calcolo formale della sopravvvenza in rapporto alle singole patologie associate ed alla loro interazione tra di loro e con la malattia di base. La ricerca è estremamente importante in quanto fornisce un esempio prezioso di strumento decisionale utilizzabile nelle decisioni cliniche.

Med Care 1999; 37: 601-14

Il "proprio" medico fa la differenza?
E' noto che la relazione tra medico e paziente è un elemento importande delle cure, e può influenzare i risultati delle cure stesse. I ricercatori della UCLA di Los Angeles hanno potuto stabilire che non solo avere il proprio medico migliora gli effetti delle cure, ma anche che favorisce abitudini di vita più salutari.
Esaminando i dati di oltre 3000 adulti, i ricercatori hanno osservato che le persone che disponevano di un medico di riferimento abituale assumono le medicine prescritte con più regolarità, fanno più prevenzione ed hanno meno rischi di tossicodipendenza ed obesità.
Ne deriva che la relazione medico-paziente è veramente un efficace strumento di prevenzione e cura, e che su questo tema è utile impiegare risorse con l'obiettivo di migliorare lo stato di salute della popolazione.

Med Care 1999;37:547-55


NEWS- Medici e Management
per medici
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di management)
20/02/00

I costi della qualità
Praticamente tutti gli ospedali degli USA si impegnano a migliorare la qualità. Molti managers hanno tuttavia dubbi sul fatto che i costi siano poi correlati ad effetti benefici.
Due gruppi di ricercatori, l'uno di Evanston nell'Illinois ed uno di Berkeley in California, hanno correlato le spese fatte per la qualità ed i relativi risultati sulle cure prestate ai pazienti . La variabilità delle situazioni incontrate non ha permesso di stabilire con chiarezza se le somme spese in qualità siano no in grado di esercitare un effetto benefico sulle cure, ma hanno comunque validato il principio dell'efficacia del confronto formale tra tecniche e risultati di vari ospedali (benchmarking) come strumento per valutare gli effetti delle politiche di qualità.

Med Care 1999; 37: 1084-87

Misurare la qualità fa bene alla qualità?
In una interessante rassegna proveniente da un ospedale della California si pone un problema un po' imbarazzante: la misurazione della qualità può peggiorare la qualità? Detto così sembrebbe un controsenso, ma l'autore cerca di dimostrare che un controsenso non è. Con ottime argomentazioni egli chiarisce l'incerto legame tra le numerose misure di qualità (elaborate per la verità in area non clinica) e l'effettivo effetto delle cure. Ne deriva che se questi indicatori non sono corretti, l'allocazione delle risorse fatta sulla loro base è anch'essa non corretta. In alcuni casi inoltre un'eccessiva fede nelle misure di qualità può ridurre l'autonomia del medico: per ridurre gli effetti potenzialmente pericolosi della misurazione della qualità, è necessario che i medici clinici apprendano ed applichino le tecniche di valutazione di qualità, senza delegare questo compito ad altri e siano in grado di negoziare la difesa delle loro autonomia. Il miglioramento della qualità è certamente utile, ma nella sua applicazione bisogna tenere conto degli effetti degli interventi e soprattutto del vero significato degli indicatori utilizzati per valutare la qualità di strategie, interventi e procedure.

Nex England Journal Of Medicine 1999; 341: 147-50


NEWS- Medicina Interna
per medici ( notizie dalla letteratura relativa a problemi eminentemente clinici)
05/03/00

Troppa igiene può fare male
Un eccesso di igiene può anche fare male: un gruppo di ricerca di Roma, Italia, ha dimostrato che l'atopia è collegata con una bassa esposizione a microorganismi a trasmissione orofecale ed alimentare. In una precedente ricerca lo stesso gruppo aveva dimostrato che la sieropositività per epatite tipo A era inversamente correlata con l'atopia. Nello studio recentemente pubblicato dal British Medical Journal, eseguito su 480 allievi dell'Aeronautica (240 atopici e 240 non atopici), il gruppo di ricerca, diretto dal dr. Madricardi, ha dimostrato che nei soggetti atopici vi era una prevalenza minore degli anticorpi contro Toxoplasma Gondii , Helicobacter Pylori ed Epatite tipo A che non nel gruppo di controllo. Asma ed allergie risultavano rare nel gruppo dei soggetti esposti ad almeno due di questi organismi a trasmissione orofecale od alimentare. Il meccanismo patogenetico dell'atopia risiede probabilmente nel tessuto linfatico intestinale il quale, se non stimolato da microorganismi esogeni, favorisce l'insorgenza di atopia.

British Medical Journal 2000; 320::412-417

La colonscopia virtuale
Per molti pazienti la colonscopia è un'esperienza penosa e dolorosa, a causa delle caratteristiche tecniche dell'esame e dalla sua invasività. Le innovazioni tecnologiche, e specialmente l'avvento della TAC spirale e delle nuove possibilità di elaborazione delle immagini, permettono di eseguire una colonscopia non invasiva. La tecnica utilizza la stessa procedura del clisma opaco accopiata all'imaging volumetrico tridimensionale, possibile oggi con le TAC spirali di ultima generazione. L'elaborazione permette di visualizzare il colon come nella colonscopia tradizionale, con in più la possibilità di "vedere" anche i tessuti circostanti. L'esame permette di visualizzare con un grado di dettaglio davvero impressionante polipi superiori ai 5 mm di diametro, e dettaglio non indifferente, permette di "vedere" anche a monte di ostruzioni non superabili con il colonscopio tradizionale.
Naturalmente saranno necessari studi ed approfondimenti prima che la tecnica diventi di largo impiego sia per i problemi attuali di tempo (30/60 minuti) che per l'accuratezza.

British Medical Journal 1999; 319: 1249-52


NEWS-Gestione clinica
per medici (notizie dalla letteratura relativa a problemi di politica clinica)
05/03/00

Il percorso critico migliora la performance degli ospedali nella polmonite
La polmonite nosocomiale rappresenta un grosso problema per gli ospedali, in quanto la variabilità dei trattamenti e dei criteri di ospedalizzazione determina molte ospedalizzazioni potenzialmente inutili: infatti molti pazienti con polmonite, trattati abitualmente in ospedale, possono essere dimessi precocemente od anche essere trattati direttamente a domicilio. Un percorso critico (che indica tappa per tappa le misure da prendere e le decisioni ottimali per ogni paziente) si è dimostrato utile a ridurre la variabilità delle cure per polmonite ed a ridurre le ospedalizzazioni incongrue senza creare danni ai pazienti: lo dimostra un ampio studio canadese, coordinato dai ricercatori di London, Ontario, che su 1743 pazienti studiati ha dimostrato che l'adozione di un percorso critico (basato su criteri espliciti per la diagnosi, il ricovero, la terapia e la dimissione dei pazienti con polmonite) permette una riduzione del 18% nel ricovero di pazienti a basso rischio e l'utilizzo di 1,7 letti di meno per paziente con polmonite che si presenta al Dipartimento di Emergenza.
Lo studio dimostra che l'adozione di criteri espliciti e scientificamente fondati per patologie ben definite è in grado di ridurre l'ospedalizzazione senza mettere a rischio i pazienti

Journal of American Medical Society , 2000; 283: 749-755

I ricoveri ospedalieri ci dicono qualche cosa sulle cure primarie?
I ricoveri ospedalieri vengono spesso collegati ad una cattiva qualità delle cure del territorio, specialmente nel caso di malattie come asma, ipertensione, scompenso cardiaco, broncopatia cronica ostruttiva e diabete. In realtà i medici del territorio hanno una responsabilità limitata nel ricovero di pazienti affetti da questa malattie: la causa dei ricoveri poco appropriati è invece da ricercare in situazioni sociali di emarginazione, dalla presenza di malattie concomitanti o dagli ospedali. Il criterio di giudicare l'efficienza delle cure territoriali in base ai ricoveri ospedalieri è un criterio fallace, in quanto molte delle cause di ricovero sono fuori del controllo dei medici del territorio. Lo afferma il prof. Jankowski di Londra, che suggerisce anche che una possibilità di ridurre i ricoveri inappropriati potrebbe provenire dal miglioramento delle informazioni a disposizione dei pazienti.

British Medical Journal 1999; 319: 67-68


NEWS- Medici e Management
per medici
(notizie dalla letteratura relativa a problemi di management)
05/03/00

Medici ospedalieri: lavorare troppo, lavorare a rischio?

I bisogni dei pazienti si esprimono sia di giorno che di notte. Qualcuno deve rispondere. Ma chi è questo qualcuno? Generalmente i medici più giovani, che in molti paesi devono sopportare turni di lavoro massacranti. Il dovere medico in genere comporta la necessità di lavorare ben oltre i limiti contrattuali, il che significa anche oltre i tempi fisici. Il concetto che i medici si adattano al lavoro notturno non è comprovato nella pratica, in quanto il ritmo circadiano è uguale per tutti. Uno studio australiano dimostra che il lavoro oltre le 12 ore durante la notte ed oltre le 16 ore durante il giorno aumenta il rischio di errori ed incidenti, in quanto il mitico adattamento dei medici al lavoro notturno o prolungato non è mai stata dimostrato. Il rischio di errori può essere peggiorato dalle misure messe in atto per sopportare turni di lavoro massacranti, come le diazepine prese per dormire "a comando" o la caffeina assunta per sopportare la fatica.
Il mito del sacrificio medico andrebbe perciò rivisto.

Medical Journal of Australia 2000; 168: 614-616

La formazione si sposta dalla corsia all'ambulatorio
La formazione del medico avveniva in ambulatorio fino agli inizio del XX secolo. Successivamente la formazione si è spostata nelle corsie ospedaliere ed universitarie, ma ora si sta nuovamente concentrando nell'ambito ambulatoriale. I motivi sono costituiti dalla necessità di curare le malattie croniche, dalla necessità di concentrarsi sul paziente piuttosto che sulla malattia e dai crescenti bisogni di riabilitazione. Il punto focale dei sistemi sanitari si sta spostando dall'ospedale al territorio, il che comporta non piccoli problemi nella programmazione della formazione del medico. Al curriculum tradizionale vanno aggiunte peraltro nuove tematiche, come l'educazione del paziente e la valutazione a livello ambulatoriale.

Archives of Internal Medicine 2000; 278:273-280


NEWS- Medicina Interna
per medici ( notizie dalla letteratura relativa a problemi eminentemente clinici)
12/03/00

Gli estrogeni riducono il rischio di demenza?
Alcuni piccoli studi clinici dimostrerebbero che la terapia estrogenica sostitutiva sarebbe i grado di ridurre il rischio di demenza di Alzheimer nelle donne: un gruppo di ricercatori statunitensi di varie unioversità(California, Baltimora, Yale, Houston, Florida, New York, Ohio) ha eseguito uno studio multicentrico randomizzato della durata di 12 mesi che prevedeva la somministrazione di estrogeni e d il controllo delle attività cosngitive mediante le scale di uso più frequente. La terapia di un anno non ha dimostrato alcun miglioramento delle capacità cognitive.
Le ricerche eseguite sugli animali che dimostravano un miglioramento della performance non sono state quindi confermate. I risultati talora contraddittori delle ricerche precedenti (coinvolgenti tuttavia piccoli numeri di partecipanti) e la mancata dimostrazione nell'uomo delle ricerche animali richiedono tuttavia tempi più lunghi e soprattutto valutazioni più sofisticate, come la PET e tempi di osservazione più lunghi.
Journal of American Medical Association, 2000; 283:1007-15
Editoriale 1055-56


Una nuova arma per gli enterococchi resistenti alla vancomicina
La resistenza alla vancomicina di stafilococchi ed enterococchi (causata dall'eccessivo uso profilattico di vancomicina orale negli USA e dall'esteso uso veterinario di glicopeptidi in Europa) pone non facili problemi clinici. La FDA sta registrando con procedura accelerata il dalfopristin ed il quinopristin, due antibatterici streptograminici (in corso di registrazione anche in Italia), che sarebbero in grado di agire per via endovenosa sull'Enterococcus fecium e sullo Staphilococus aureus resistenti alla meticillina. Gli studi clinici hanno dimostrato che questi antibiotici sono in gradi di fornire successi in gravi infezioni resistenti. Tuttavia essi dimostrano effetti collaterali notevoli (dolori, infiammazioni ed edema locale nel 75% dei casi se somministrati per via venosa periferica ) ed interferiscono con il CYP3A4 causando interazioni con calciantagonisti, ipnotici, ciclosporina e cisapride. Il loro uso va quindi attentamente limitato ai casi veramenti gravi.

Medical Letter It 2000;29:5-6


NEWS-Gestione clinica
per medici (notizie dalla letteratura relativa a problemi di politica clinica)
12/03/00

Tenere i pazienti fuori dall'ospedale
Le cure ospedaliere consumano la maggior parte della spesa sanitaria, per cui si cercano sistemi per migliorare l'efficienza dei servizi sanitari mediante l'adozione di nuove pratiche che favoriscano il day-hospital e le cure ambulatoriali in luogo del ricovero tradizionale. Molte volte tuttavia il punto di vista dei pazienti non viene preso in considerazione: questo avviene frequentemente nei paesi in cui il sistema la'abitudine di prendere in esame prima le considerazioni economiche e solo dopo le preferenze dei pazienti.
Un gruppo di ricercatori di Leicester, UK, ha dimostrato che l'adozione di una politica di trattamento ambulatoriale di problemi ginecologici (come l'isteroscopia) un tempo tradizionalmente trattati con il ricovero ospedaliero non solo riducono le spese ma anche migliorano la soddisfazione dei pazienti. Va ricordato tuttavia che gli attuali isteroscopi di piccolo diametro permettono sì esami meno invasivi, ma talvolta hanno una precisione più limitata nelle piccole lesioni, caratteristica di cui è necessario tenere conto. E' perciò necessario che il corpo medico accetti ed implementi le innovazioni, non dimenticando però la necessità di valutare sistematicamente le caratteristiche positive e negative dei nuovi metodi

British Medical Journal 2000;320:279-82
Editoriale262-3

Arresto cardiaco fuori dall'ospedale
L'arresto cardiaco fuori dall'ospedale è un'eveniznza frequente nei paesi industrializzati e porta a morte 1/1000 persone all'anno negli USA. Se l'arresto viene trattato precocemente, le possibilità di sopravvivenza aumentano dal 30 al 70%. Dato che la maggiooranza degli arresto cardiaci è dovuto a malattia coronarica ed è conseguente ad una aritmia acuta nella quale il temo per l'intevento è di 3/4 minuti, è necessario pensare alla possibilità di costruire una "cetena di sopravvivenza" fuori dall'ospedale. La chiave della catena è la possibilità di defibrillazione precoce usata anche da persone non sanitarie ma addestrate alla manovra: negli Stati Uniti ed in Australia la diffusione di defibrillatori automatici semplici e l'addestramento di forze di polizia, custodi di grandi magazzini, responsabili di eventi sportivi, personale viaggiante delle compagnie aeree e parenti di persone a rischio ha permesso di ridurre sostanzialmente la mortalità per arresto cardiaco fuori dall'ospedale. Lo studio, eseguito dai Ricercatori dell'Università di Melbourne ha confermato i dati americani su questo tema.

Medical Journal of Australia, 2000; 172:73-76
Editoriale 53-54


Glicemia a digiuno e diabete: quale è il vero cutoff?
Un gruppo di studio internazionale comprendente ricercatori australiani, britannici, finlandesi e delle isole Mauritius ha studiato per cinque anni una popolazione di oltre 4000 persone non diabetiche di queste isole per chiarire se la tradizionale soglia di glicemia a digiuno di 6,1/6,9 mmol/lt rappresenti o no un cutoff per le complicazioni vascolari ed il rischio di sviluppare diabete. La ricerca ha dimostrato che il rischio cardiovascolare ed il rischio di sviluppare diabete esistono anche al disotto di questa soglia, ed il rischio diventa inferiore al 5% solo sotto le 5 mmol/l di glicemia a digiuno. In questa popolazione quindi il tradizionale limite di 6,1 mmol/lt di glicemiaa a digiuno va abbassato ad un valore inferiore alle 5,8 mmol/lt.

Diabetes Care 2000; 23:34-39

 

Invio 11/05/00

I betabloccanti riducono la mortalità e la durata di degenza nell'insufficienza cardiaca
Notoriamente i betabloccanti sono farmaci molto utili nell'insufficienza cardiaca, ma sono anche farmaci che vengono usati troppo poco per questa indicazione. La ricerca MERIT-HF, effettuata da un gruppo di ricercatori di Gothenburg in Svezia, sottolinea l'importanza di questi farmaci nell'insufficienza cardiaca dimostrandone non solo la capacità di migliorare la situazione di compenso ma anche di ridurre la mortalità, sia totale che dovuta all'insufficienza stessa, di ridurre il numero di ricoveri e di ridurre anche la lunghezza degli stessi.
Lo studio (randomizzato, doppio cieco, farmaco a due concentrazioni contro placebo) e che ha utilizzato il metprololo a lento rilascio (metprololo CR/XL) è stato effettuato su 3991 pazienti con insufficienza cardiaca in classe NYHA da II a IV. La riduzione della mortalità , per tutte le cause è stata del 19%, mentre quella per insufficienza cardiaca è stata ridotta del 31%. I ricoveri ospedalieri sono stati ridotti del 35% e la loro durata è stata ridotta del 36% nel gruppo trattato.
Lo studio, pur limitato a pazienti in stadi non avanzatissimi di insufficienza cardiaca, dimostra l'utilità di un farmaco a lento rilascio appartenente ad una classe di farmaci ancora sottoutilizzati.
Nell'editoriale si sottolinea la semplicità del disegno del trial, che ne permette l'applicabilità nella normale pratica. Inoltre lo studio dimostra come l'uso dei betabloccanti, ancora una volta segnalato come troppo ridotto, permetta di migliorare i sintomi, di prolungare la vita e di migliorarne la qualità nei pazienti con insufficienza cardiaca
Journal of American Medical Association, 2000; 283:1295-302
Editoriale 1335-6

La terapia ipolipemizzante è ancora molto sottoutilizzata
La terapia ipolipemizzante è il cardine di molti interventi preventivi, data la dimostrata relazione tra colesterolo LDL (LDL-C) ed il rischio di cardiopatia coronarica. E' noto tuttavia che, nonostante le informazioni, le raccomandazioni e le linee-guida la percentuale dei pazienti che vengono tratti efficacemente (riduzione di livelli di colsterolo LDL sotto i 130 mg/DL secondo le linee-guida NCEP) è molto bassa. In particolare, nei pazienti che hanno già subito un IMA, solo una piccola percentuale (fra il 10 ed il 30% circa) raggiunge i livelli di LDL desiderati. Lo studio del Dipartimento di Medicina di Comunità e Preventiva dell'Università di Rochester, NY, ha dimostrato che le cose non vanno meglio anche nei pazienti che hanno una dislipidemia. Su 4888 pazienti studiati in cinque regioni degli USA, solo il 38% raggiungono i livelli di LDL-C. Inoltre nel gruppo dei pazienti a rischio maggiore solo il 18% raggiunge i livelli desiderati di LDL-C. La compliance pare che in questo studio non giuochi un ruolo fondamentale nel raggiungimento dell'obiettivo: ne risulta che è necessario intensificare la terapia farmacologica e dietetica nei pazienti che non rispondono alle dosi normali di questi farmaci, e soprattutto migliorare la qualità della prescrizione.
Archived of Internal Medicine 2000; 160:459-67

 

Linee-guida e pratica medica: lo scontro con la realtà
Due medici ,il prof. Hirst di Brisbane e la prof. Ward di Sydney, hanno rivalutato a distanza gli effetti del lavoro della commissione incaricata di redigere una linea-guida sulle infezioni delle vie urinarie (IVU), commissione ai cui lavori i ricercatori avevano preso parte. Nel corso della loro revisione critica vengono messe in luce le molte carenze del sistema attuale di redazione delle linee guida: ad esempio, i rappresentanti dei consumatori possono non rappresentare le persone con IVU, ed essere quindi totalmentre privi dell'esperienza necessaria. Inoltre i conflitti di interessi possono sempre esistere, specialmente se si pensa che ogni rappresentante è portatore degli interessi del suo gruppo. Nel caso particolare delle IVU, l'evidenza disponibile era scarsa al momento della redazione della linea-guida(1995), il che aveva reso difficile redigere delle raccomandazioni credibili. In conclusione, dopo 5 anni, gli autori concludono che l'esperienza, costata 160.000 $ australiani (circa 220 milioni di lire), non ha determinato sensibili variazioni nelle abitudini prescrittive degli urologi australiani: l'obiettivo iniziale di ottenere dal lavoro della commissione dei miglioramenti dei risultati ed una riduzione di spesa non sono stati raggiunti in alcun modo.
Medical Journal of Australia 2000; 172:287-291

Lo stroke ischemico non è dovuto solo alla stenosi carotidea
Un gruppo misto di neurologi e biostatistici canadesi ed australiani, riesaminando i dati dello studio NASCET, ha ipotizzato che non é affatto automatico che tutti gli strokes che avvengono a valle di una carotide stenotica sono di fatto dovuti alla stenosi ed alle sue conseguenze. Per dimostrare l'ipotesi hanno riconsiderato i dati dello studio in oggetto, raccolti nel decennio 1987/1997. La ricerca ha dimostrato che, in una percentuale che va dal 20 al 40%, gli strokes che si manifestano a valle di un'arteria con stenosi dal 70 al 99% non sono correlati con la stenosi: quindi, anche in presenza di stenosi arteriose comunente giudicate suscettibili di intervento, la causa dello stroke a valle frequentemente non è correlato con la presenza della stenosi stessa. Per tale motivo i criteri attuali di indicazione all'endoarteriectomia possono necessitare di una revisione.
Journal of the American Medical Association 2000;283:1429-36

Quanto è pericoloso abbreviare la degenza per risparmiare denaro?
L'enfasi che viene sempre più posta sulla necessità di abbreviare per quanto possibile la degenza per ridurre i costi ha contagiato anche l'infarto miocardico. E' facile dire di ridurre la degenza, ma non è facile bilanciare le esigenze economiche con il rischio che una degenza abbreviata danneggi il paziente.
Un gruppo internazionale di ricercatori, provenienti dal Canada, dagli USA, dal Belgio e dalla Nuova Zelanda ha considerato la possibilità che trattenere i pazienti in ospedale dopo 72 ore dalla trombolisi con TPA possa costituire un costo aggiuntivo che non è giustificato da un miglioramento dei risultati. Come indicatore di rischio connesso con la dimissione precoce è stata selezionata la evenienza di complicanze gravi ( ossia che necessitano di rianimazione cardiopolmonare per arresto cardiaco) avvenute tra la 72a e la 96a ora dopo la tombolisi. Dei 22361 pazienti esaminati ( i quali avevano avuto 72 ore esenti da complicanze dopo la trmbolisi), 16 avevano avuto un arresto cardiaco tra la 72a e la 96a ore e 13 erano sopravvissuti. Il giudizio finale è che che un ulteriore giorno di ospedalizzazione è potenzialmente utile solo se vengono identificati i pazienti ad alto rischio di arresto cardiaco.
Nel commento editoriale si sottolinea come sia forse più utile e fattibile identificare i pazienti a basso rischio, nei quali il risparmio può essere ottenuto senza danneggiare il apziente. Si sottolinea anche come questa scelta permetta di evitare che le compagnie assicurative rifiutino di remunerare una degenza superiore alle 72 ore nei pazienti sottoposti a trombolisi
New England Journal of Medicine 2000; 342: 749-55
Commento editoriale 808-809


Come tarare al meglio la terapia nello scompenso cardiaco
I ricercatori neozelandesi che si dedicano alla cardioendocrinologia hanno pubblicato una interessante ricerca sulla possibilità di guidare il trattamento dell'insufficienza cardiaca basandosi sulle concentrazione del N-BNP (ormone natriuretico cerebrale aminoterminale).
In un gruppo di 69 pazienti ricoverati in una clinica specializzata nella terapia dello scompenso cardiaco, una parte è stata trattata nel modo convenzionale ed un'altra adeguando l'intensità delle terapia in base alle concentrazioni plasmatiche del N-BNP. Nel gruppo trattato in base alla concentrazione del neurormone si é osservata una netta (e statisticamente significativa) riduzione degli eventi cardiovascolari (morte, scompenso, riammissione in ospedale); inoltre gli eventi cardiovascolari osservati in questo gruppo si sono manifestati più tardivamente che nel gruppo di controllo.
Lo studio, oltre a dimostrare l'importanza dell'attivazione neuroromonale nello scompenso, suggerisce un nuovo e più efficiente modo di trattare lo scompenso.
Lancet 2000; 9210: 1126-30


Le conseguenze dannose della riduzione dei letti nelle unità intensive
Il taglio indiscriminato dei posti-letto può anche far risparmiare del denaro, ma certamente aumenta, e non di poco, i rischi per i pazienti.
Nell'area di Londra, area nelle quale è stato eseguito negli ultimi anni un consistente taglio dei costosi letti riduzione dei letti nelle Unità di Terapia Intensiva (UTI), la scarsità dei letti disponibili ha determinato una serie di disagi, come cancellazione degli interventi chirurgici, rifiuto di ricoveri ed anche trasferimenti di centinaia di miglia per trovare un letto libero in una UTI. A questi disagi si aggiunge la possibilità che i pazienti vengano dimessi troppo precocemente dalle UTI rischiando conseguenze molto gravi, sempre a cauda della scarsità di letti.
Uno studio eseguito in quest'area che ha preso in esame il numero dimissioni dalle UTI eseguite nell'orario notturno, dimissioni motivate tipicamente dalla necessità impellente di liberare un letto in UTI; queste dimissioni notturne sono spesso troppo precoci e possono mettere a rischio i pazienti.
Lo studio ha effettivamente dimostrato che le dimissioni precoci durante le ore notturne sono in notevole aumento (dal 2,7% nel 1988 al 6% nel 1995), e che i pazienti dimessi in questo modo hanno un rischio aumentato di morte. Questo fatto è particolarmente evidente per le dimissioni che avvengono tra la mezzanotte e le 4 del mattino.
L'eccessiva riduzione dei letti nelle UTI causa quindi un aumento di dimissioni a rischio che a sua volta determina un aumento significativo della mortalità, il che deve far riflettere seriamente sui pericoli dei tagli inscriminati
Lancet 2000; 355:1138-42